Da Pasolini a Maria De Filippi. (III e ultima parte)

Era il 1975 e per Pasolini il potere stava per cambiare faccia, per conquistare i ceti popolari spingendoli ad abbandonare l’antica cultura solidale. I democristiani ingessati avrebbero presto mostrato un volto permissivista, sarebbe arrivato il Craxismo, la TV commerciale (compresa la RAI) e la commercializzazione della società, l’unità di valori e aspirazioni tra ceti bassi e borghesia appiattiti sull’immaginario della seconda. La libertà sessuale falsificata, in un paese come il nostro dove oggi il sesso è esposto ovunque ma i rapporti interpersonali non appaiono  più facili né spontanei o, soltanto per fare un esempio che metta insieme l’immaginario pasoliniano e la cronaca di questi giorni, l’omofobia è tutt’ora profondamente radicata. I giovani e il potere nel 1975  stanno cambiando, il primo rapimento delle BR è del ’73, il rapimento Moro del ’78, Guido Rossa muore nel ’79 e l’ultima bomba di stato esploderà nei primi anni ’80.

Il 2 novembre del 1975 Pasolini viene ammazzato (prima del montaggio di Salò senza poter difendere il film dai suoi molti critici) eppure intuisce il cambiamento in atto in quel quinquennio che non vedrà e lancia scrivendo e filmando la sua ultima profezia.
Chiudo con una pseudo-allucinazione avuta qualche settimana fa incappando in venti minuti di Buona Domenica. Mi sono immaginato Pasolini catapulato nel mondo dei vivi sul divano di casa mia a guardare questa TV, senza aver sviluppato trent’anni di anticopri. Avrei voluto poter scrutare il suo volto sgomento, l’espressione   agghiacciata di chi ha gettato per venti minuti lo sguardo nell’abisso.
Nella prima parte di questo lungo post avevo usato la parola sottoproletariato, una parola che non mi piace e che pare non descrivere più nulla, legata ad un linguaggio obsoleto di cui non ho alcuna nostalgia, una parola che però era ancora viva nel ’75. Non che in Italia oggi non ci siano poveri, basta alzare il tappeto e se ne trovano in quantità, ma quell’espressione va oltre l’indigenza economica, abbraccia la sfera sociale e culturale.  Se ha senso ancora parlare di sottoproleariato oggi in Italia, è soprattutto di un  sottoproletariato culturale. Magari lo troverete con vestiti fashion a fare la fila davanti alla sala provini del GF, di Saranno Famosi, a dimagrire per somigliare a qualche stronza patinata o sdraiato sul divano a non perdersi una parola di quel nulla chiassoso che è Buona Domenica.

Buona Domenica e programmi del genere d’altro canto rappresentano una buona metafora dell’Italia: un salotto rissoso in cui si discute di tutto  e in cui nulla è mai messo veramente in discussione.

Nel 1975 Pasolini viene ammazzato  e stupisce vedere come lo spegnersi di una sola voce possa costare tanto caro ad un intero popolo.

 

Da Pasolini a Maria de Filippi. (II Parte)

La trilogia della vita dicevo, che ho trovato interessante per cercare di ricostruire il percorso di Pasolini ma che non potrei dire mi sia piaciuta. Troppo distante dai miei gusti, dal mio immaginario e dal tipo di cinema che ho imparato ad apprezzare e col quale sono cresciuto. Trovo  I racconti di Canterbury addirittura un film privo di qualità, mentre ho almeno apprezzato la fotografia e l’estetica de Il Decameron e del Il Fiore delle mille e una notte. La faccia dura di Franco Citti, ad esempio, riempie lo schermo fino quasi a marchiarlo, a renderlo convesso. A quel punto, ben sapendo a cosa andavo incontro, ho completato il cofanetto  vedendo Salò, quest’ultimo tratto da l’opera di De Sade. Salò è un film terribile e disgustoso, una tortura per il pubblico cui viene mostrato tutto ciò che, pur sapendo possibile, non vorrebbe mai vedere. Salò sembra avere l’unico scopo di rappresentare una frontiera per il cinema, come se Pasolini avesse percorso l’immaginario cinematografico fino a raggiungerne  i confini più sgradevoli e lì avesse piantato un bandierina. Oltre Salò sarà difficile andare, almeno artisticamente senza cioè finire nella pornografia o nel documentario sulla violenza. Dopo La Trilogia ode al sesso, alla sensualità e alla vita, un film di pura morte e dolore senza alcuna ruffianeria e senza che nulla venga risparmiato al pubblico pagante. Tutto qui? Forse no. Forse Salò parla in qualche modo anche della Terza Fase del Fascismo, quella nominata anche nelle Lettere Luterane. Il film è ambientato nel ’45 ed è legato al fascismo storico, ma della sua violenza sono complici tutte le componenti del potere,da quello militare a quello religioso. Componenti che non appartengono ad un’epoca, ma attraversano la storia trasformandosi, per l’autore, per degenerazioni successive. Salò proietta e realizza la distruzione di ogni bellezza, la trasformazione dei corpi in oggetti ad uso e consumo del potere, la cessazione di ogni dimensione intima dell’essere umano, persino la comunicazione è soltanto volgarità, violenza e delazione. “Mi interessava vedere come agisce il potere dissociandosi dall’umanità e trasformandola in oggetto”, scrive Pasolini. Salò contiene già l’abiura della Trilogia della vita  in quanto la vitalità da lui esaltata nelle opere precedenti viene distrutta, corrotta e asservita al nuovo potere. Metafora complessa forse di quella trasformazione che egli leggeva nella gioventù italiana del ’75: alla fine del film ormai seviziati in ogni modo i prigionieri di Salò diventano delatori gli uni degli altri, la loro umanità viene piegata e sconfitta, la loro istintiva solidarietà tra vittime spezzata.

Salò parla simbolicamente dei programmi di Maria de Filippi.

Questa non è un’analisi, è soltanto un’intuizione o forse una suggestione, alla quale però non sono riuscito a sottrarmi. Non è neppure originale in quanto già presente in una collezione di quadri di D.B., un amico che perdo puntualmente di vista, intitolata “Salò o le centoventi giornate di Saranno Famosi”. Idea che anni fa mi aveva divertito, ma che non ero riuscito ad afferrare fino in fondo e che affonda le radici nella dimensione pubblica come unica affermazione di esistenza. Una dimensione pubblica sciatta, esibizionista, dove la versione caricaturale della sfera privata viene esposta come carne al sole e vivisezionata. Tutto sotto il rigido controllo  delle telecamere e  degli sponsor, dove ogni bassezza è bene accetta e incoraggiata, e la perdita del pudore non è l’affascinante inclinazione di alcuni ma un obbligo per tutti, pena l’esclusione e l’ostracismo. Una libertà  omologante quanto una rigida dottrina,  cui  si aspira con entusiasmo perchè non si sa più aspirare ad altro.

(continua…)

“Salò e le centoventi giornate di saranno Famosi”, Batocchioni, 2003

 

Da Pasolini a Maria de Filippi. (I Parte)

Quando sei costretto a casa per più di un mese dai postumi di una artroscopia alla spalla, ti ritrovi di colpo con un sacco di tempo a disposizione. Hai tempo per seguire dopo anni una lezione all’università, per leggere i libri che attendevano in una alta pila polverosa sul tuo comodino e per saccheggiare DVD dal negozio di noleggio di Walter. Hai insomma tutto il tempo per fare le cose che ti piacciono e addirittura, e di questo magari dubitavi, il tempo per fare quelle cose che non sei affatto sicuro ti piaceranno ma sei certo che siano interessanti. Chiamatelo se volete libero studio, che suona bene. E’ così che ho preso in mano il cofanetto degli ultimi film di Pasolini regalatomi da Theprez e mi sono sparato prima la trilogia della vita e poi Salò o le centoventi giornate di Sodoma. Non pago ho recuperato a parecchi mesi dalla prima lettura “Lettere Luterane” la raccolta degli articoli scritti da Pasolini nel ’75, l’anno della sua morte. Tra gli articoli c’è anche “l’abiura della trilogia della vita” che avevo appunto appena finito di vedere. La trilogia è composta da “il Decameron”, “I racconti di Canterbury” e “Il fiore delle mille e una notte”. Nell’abiura Pasolini spiega di aver voluto rappresentare i corpi nella loro bellezza e nella loro sensualità, senza essersene affatto pentito. Tuttavia l’artista rinnega, a posteriori, l’opera e ne spiega le ragioni. La rappresentazione del sesso e degli organi sessuali era da lui intesa per affermare la propria libertà espressiva, verso la ricerca di una liberalizzazione sessuale necessaria nel quadro di potere ecclesiastico-democristiano di quegli anni. Quando però , a posteriori, il potere muta e invece di osteggiare la libertà sessuale la falsifica, Pasolini si dice costretto ad abiurare. Il potere diventa consumistico, il corpo diventa una merce da esposizione di massa e il sesso viene inteso come volgarità e manipolazione, quando non esplicitamente violenza. La gioventù sottoproletaria (si parlava ancora così e su questo termine vorrei tornarci in seguito) non sa difendersi e diventa secondo Pasolini  schiava dell’imitazione della cultura borghese devota al possesso e all’individualismo, in morte della cultura popolare. Per Pasolini l’emancipazione delle classi popolari e il complessivo miglioramento delle loro condizioni di vita, nulla ha a che vedere con l’abbandono della propria identità culturale. L’aspirazione ad uno standard di vita borghese e la conseguente appropriazione di valori borghesi santificati da una cultura di massa (cioè dei mass-media) interclassista quanto becera, per Pasolini sono le cause della nascita di una gioventù criminaloide o criminale, da lui già denunciata. Il proletario aspira a modelli provenienti da un mondo che gli è estraneo, diffusi dalla televisione e accettati acriticamente, al cui raggiungimento omologante è pronto a sacrificare tutto, per prime onestà e innocenza. La realtà mostra a Pasolini una generazione corrotta e l’autore ne deduce una corruttibilità retroattiva che non risparmia neppure la gioventù dei secoli precedenti da lui raffigurata nella trilogia. Di qui l’abiura. Di questa criminalizzazione dei giovani sottoproletari ne farà le spese egli stesso nel modo più tragico di lì a pochi mesi, comunque la si pensi sulla vicenda giudiziaria legata a Pelosi. E’ il 1975 e in altri scritti Pasolini denuncia un quadro politico che sta cambiando, una classe dirigente democristiana arretrata e inadeguata al nuovo dinamismo del capitale, che sta per essere spazzata via da quella che egli chiama la Terza fase del fascismo. Al manganello nell’imposizione del consenso si sostituiscono i mass media. Alla retorica sulla conquista dell’ Etiopia (*), l’acquisto della seconda auto o del frigidaire. Vi ricorda qualcosa?
(continua)
(*) Anche oggi facciamo la guerra, ma usiamo una retorica di pace.

Sindrome allucinatoria da Skunk.

Dio stramaledica gli inglesi.
L’abiura dell’Independent, ha generato il solito stato allucinatorio nella politica e nei media italiani fornendo un nuovo argomento moda su cui dibattere a sproposito. Si è strillato allo scoop, all’inchiesta o addirittura alle nuove scoperte dell’Independent.  L’argomento forte del giornale inglese è basato sulla presenza in alcune  qualità di marjuana, tra cui la Skunk, di una maggior concentrazione di THC, tetraidrocannabinolo. In questi ibridi il THC è presente in quantità superiore al 20% rispetto a percentuali inferiori al 5% della cannabis di qualche anno fa. La destra si mostra sconcertata e compiaciuta, mentre la sinistra chiede nuovi studi sull’argomento, per bocca  di un ministro. Ecco, non si tratta né di uno scoop né di nuove  analisi, in quanto la cosa è di dominio pubblico da diversi anni. Per rintracciare l’informazione non c’era bisogno di  conoscere  qualche oscura pubblicazione specialistica  di chissà quale università del Nevada, visto che l’argomento è stato ampiamente dibattuto nel parlamento Olandese, qui nella UE.  Come si erano procurati i politici  olandesi questa sconvolgente notizia? Esattamente come poteva procurarsela chiunque altro, cioè entrando in un negozio olandese di semi di cannabis e richiedendo un depliant gratuito. Su questi depliant è riportato il pedigree di ogni varietà di cannabis, gli incroci di specie diverse da cui è stata ottenuta e, bene in evidenza, il  tasso  percentuale di THC contenuto. Stava scritto sull’etichetta. La Skunk la producono gli olandesi da decenni applicando la scienza botanica, disciplina peraltro piuttosto antica, alle qualità preesistenti di cannabis e creando nuovi ibridi.
I nostri  media si domandano turbati: Siamo di fronte ad una nuova d
roga? No, siamo davanti alla stessa vecchia droga con un tasso di principio attivo piu’ alto. Il rapporto che c’è tra la cannabis comunemente intesa e la Skunk è quello che passa tra una Peroni da tre quarti e una bottiglia di grappa. Al solito, si riconosce al consumatore la maturità per capire che a bersi una pinta di grappa si rischia il coma etilico, ma non per comprendere che una canna di White Widow o Super Skunk ti riduconoo come tre o quattro spinelli di erba normale non sono in grado di fare.
 Non voglio discutere sull’antiproibizionismo,  perchè piu’ che la posizione  proibizionista in sé mi irritano  disinformazione e ipocrisia. L’abiura dell’Indipendent è una posizione rispettabile,  la cagnara  che ci si sta alzando mi pare l‘ennesima cortina fumogena. C’è davvero una “nuova” emergenza droga? Forse.

Mafia, cocaina ed emergenze.
La droga che ha visto crescere maggiormente negli ultimi anni la propria diffusione non è la marjuana, ma la cocaina. La crescita dei consumi c’è stata sia in senso verticale, volumi  e numero di consumatori, sia in senso orizzontale, cioè raggiungendo  nuove fasce di popolazione, tra cui gli adolescenti. Ce n’è nei fiumi, sulle banconote e persino in parlamento. Oramai pippano tutti, si sente dire in giro per Roma.
A questa verità di Pulcinella dobbiamo aggiungere che l’abuso di cocaina fa piu’ male di quello dei  derivati della cannabis, secondo tutti gli studi conosciuti, ed ha maggiori impatti sociali in quanto, ad esempio, con la cocaina la gente si rovina economicamente,  fenomeno assai raro tra i consumatori di cannabis. Ma è forse l’ultimo termine di confronto  il piu’ significativo e riguarda la considerazione che la criminalità organizzata preferisce espandere il mercato della cocaina per una lunga serie di considerazioni razionali. Provo ad elencarle:

-La cocaina è piu’ redditizia per le mafie, in quanto considerando marginali in entrambi i casi i costi di produzione, i profitti sono maggiori: la cocaina viene venduta al dettaglio ad un prezzo tra le dieci e le venti volte superiore rispetto all’erba.

-La cocaina puo’ essere tagliata. Mentre “tagliare” l’hashish è difficile e la Marjuana quasi impossibile, la cocaina viene puntualmente tagliata con qualsiasi polvere bianca inodore. Questo aggiunge margini extra per il mercato illecito della distribuzione e moltiplica i rischi per il consumatore.

-La cocaina non puo’ essere autoprodotta. Nel caso della cannabis le mafie hanno sul mercato italiano un concorrente interno che si chiama autoproduzione. E’ pieno di consumatori che grazie al clima generoso e alle lampade alogene, coltivano Marjuana sul balcone e o in piccole serre artigianali. Ogni pianta produce anche alcuni etti di prodotto fumabile che non passa per il controllo della criminalità organizzata, sottraendole fette di mercato. Per la cocaina Mafia e Camorra detengono invece un lucroso monopolio.

-Il cocainomane è un cliente fidelizzato. Diretta conseguenza della maggiore dipendenza fisica e psicologica. La “rota” come si dice dalle mie parti.

– Ci sono poi le abitudini di consumo. L’affermazione che la coca sia la droga dei ricchi non è piu’ vera in sé, proprio per la diffusione orizzontale raggiunta, ma resta vero che la cocaina é anche la droga dei ricchi. Quale imprenditore (seppur criminale in questo caso) non preferisce vendere un prodotto che raggiunga anche i portafogli piu’ pieni? Inoltre a causa dell’instupidimento obnubilatorio che provoca, la cannabis è ben poco adatta ad essere consumata sul posto di lavoro, mentre è pieno di manager che per reggere allo stress tirano prima di andare in ufficio. Se consumi a casa come al lavoro, se consumi da solo come in compagnia, se consumano i ricchi e i poveri si  moltiplicano i volumi di vendita e quindi i profitti. E’ l’addressable market come  dicono all’ufficio marketing.

La droga è un mercato, la mafia ragiona come un’azienda e andrebbe colpita dove fa gli affari migliori, dove cresce di piu’ e dove provoca maggior danno.


Media, politica e l’Amaro Montenegro.
Le attuali tabelle della legge Fini-Giovanardi prevedono tolleranza maggiore per il possesso di cocaina che per quello di marjuana. La spiegazione data dagli esperti del precedente governo è che il cocainomane ha un comportamento compulsivo, quindi è autorizzato a tenerne di piu’ a fini personali (affermazione di Giovanardi). Leggasi: “la cocaina da piu’ dipendenza, fa piu’ male, la mafia ci fa piu’ soldi ma noi proibizionisti ci andiamo con mano piu’ leggera”. La Turco, quel genio, prova ad alzare il valore delle tabelle (portandole ad un grammo, provvedimento di facciata per l’elettorato antiproibizionista), ma commette un errore tecnico di interpretazione della legge, in quanto le quantità non possono essere stabilite arbitrariamente dal ministro. Il TAR boccia il provvedimento. Cialtroneria diffusa e bipartisan.

Intanto è partita la cagnara distrattiva sulla super-cannabis, la  nuova droga, lo “scoop” dell’Indipendent e naturalmente l’emergenza Skunk.
Tra una confusa trasmissione televisiva e l’altra, chi sulla coca ci guadagna si fregherà le mani e noi potremo vedere la pubblicità del taumaturgico Amaro Montenegro che permette, come è noto, di salvare cervi feriti e di atterrare con un biplano nel deserto.  A seguire, un interessante servizio del TG2 su come il vino faccia bene  alla mente, alle coronarie,  al sangue, mantenga giovani, belli e rappresenti il cuore del Made in Italy
Vi risparmio, per decenza, i dati sugli impatti sociali dell’abuso di alcol.

Detto questo – e soltanto dopo aver detto questo-  pur essendo su posizioni antiproibizioniste, non ho problemi ad ammettere che il consumo, e soprattutto l’abuso, di cannabis faccia inequivocabilmente male alla salute e la Skunk se consumata come fosse un’erba normale ti sfonda (se non quanto una pinta di grappa, poco ci manca). Lo so.
Me l’ha detto un amico.

 

Sbatti il bullo in prima pagina.


Ieri sul sito di Repubblica è stata pubblicata in prima pagina la lettera di Giuseppe, un diciottenne napoletano comprensibilmente indignato per il fatto che i media parlino di scuola soltanto in occasione dei casi di bullismo, soprattutto se filmati e postati dagli studenti stessi su YouTube. Giuseppe sostiene che se si lascia ai ragazzi il telefonino come unico strumento comunicativo non c’è da stupirsi che questi ne facciano poi un uso eccessivo, magari a scopo prevalentemente  esibizionistico. Giuseppe si scaglia anche verso la spettacolizzazione di questi fenomeni ad uso mediatico, e su come i problemi della scuola vengano costantemente ignorati qualora non presentino risvolti sensazionalistici. In questo il mondo degli adulti e dei media somiglia un po’ a quei genitori che si lagnano delle influenze negative della televisione sui propri figli, tacendo ipocritamente sul fatto che sono stati loro stessi ad averceli lasciati davanti per anni, magari per otto-nove ore al giorno.

Accendi la TV, così il pupo non rompe i coglioni.


Giuseppe ha ragione e mi è simpatico, non me ne voglia se fermo l’attenzione su un suo errore ortografico. La lettera di Giuseppe è uscita due volte sulla prima di Repubblica, una prima versione non corretta ed una seconda versione (quella attualmente disponibile) presumibilmente rivista dai redattori del giornale. Sulla prima versione Giuseppe aveva usato due volte erroneamente, a distanza di un periodo l’una da l’altra, la “a” senz’acca.

Per chi come me leggeva la lettera solidarizzando con Giuseppe quell’ “a scritto” invece di “ha scritto” e quell’altro “a fatto” in luogo di “ha fatto”, usati da uno studente di diciott’anni, sono stati un colpo al cuore. Prima della correzione ero già pronto ad indignarmi con i correttori di Repubblica per non aver coperto le vergogne grammaticali del ragazzo, esponendolo così al pubblico sghignazzamento mentre sosteneva invece tesi condivisibili e comunque degne di essere ascoltate. Perchè adesso quell’errore invece lo sottolineo io?
Per due ragioni. La prima è che questo blog lo leggono circa quindici persone, la seconda è che quei due errori involontari avvalorano simbolicamente la tesi di Giuseppe.  Si parla poco  di quali siano i risultati scolastici e la preparazione media degli studenti italiani, poco si conosce dei programmi e di quanto i ragazzi siano in grado di scrivere in un italiano grosso modo corretto. Non sono un fanatico dell’ortografia (tra l’altro commetto piccoli errori con una certa frequenza), ma nemmeno si puo’ vederla soccombere del tutto davanti alla striminzita neolingua degli SMS. Non si conoscono inoltre molti dati su quanti padroneggino qualche parola di inglese o sappiano usare un computer (con una qualche cognizione di causa e conoscenza del mezzo, intendo). Non si parla infine di quali siano gli strumenti didattici a loro disposizione, la qualità delle strutture e degli insegnamenti magari in rapporto ad altri paesi. Pero’ sappiamo tutto su soprusi, telefonini (chissà chi glieli compra a otto anni?) e filmatini pruriginosi con maestre degne dei film di Pierino.
L’impressione è che il primo tipo di analisi darebbe risultati sconfortanti e le colpe non potrebbero essere gettate sui ragazzi, che non sono certo piu’ tonti che in passato, anzi. Le responsabilità ricadrebbero sulle istituzioni scolastiche, sulla politica ed in ultimo sui genitori. Ma chi ha voglia di  prendersi le proprie responsabilità o di cambiare la politica di governo in materia di scuola? C’è la spesa pubblica da tenere sotto controllo, i soldi che bastano a malapena per aumentare la spesa militare del 13% e una generazione intera di pseudo-genitori  deresponsabilizzati, ma elettoralmente sensibili, che vanno tranquillizzati. Tanto i vandali sono sempre i figli degli altri.

Accendi YouTube, così l’opinione pubblica non rompe i coglioni.

Buona fortuna a Giuseppe e a tutti gli altri, con degli adulti così ne hanno un tremendo bisogno.

“Il migliore”: da Togliatti a Turigliatto.

    VS  

Cazzo, guarda quanto gli somiglia, sarà mica il figlio?


Certo è che il nome di Turigliatto resterà legato alla piu’ grossa umiliazione subìta dalla sinistra radicale in epoca recente. L’umiliazione non stà nel non avere tenuto implotonato un senatore ribelle quanto nell’aver dimostrato a posteriori che questi aveva ragione. Nei dodici punti di sutura di Prodi e nelle dichiarazioni di Dalema c’è tutto il senso del gesto di Turigliatto.
Il nuovo ordine delle priorità  di un governo sorretto da almeno quattro partiti che si dicono esplicitamente di sinistra (Rifondazione, DS, PDCI e verdi) non compare  un accenno alla precarietà,  anzi non compare proprio la parola “lavoro”. Si è detto che il problema è evitare il ritorno di Berlusconi, eppure nei dodici punti non compare neppure la legge sul conflitto di interesse.  Non compare neppure l’abrogazione di nessuna  legge ad personam fatta dal precedente governo.

Con che coraggio allora si silura Turigliatto in nome dell’antiberlusconismo?

Quindi l’antiberlusconismo è il sostituirsi fisicamente a Berlusconi mantenendo sostanziale continuità politica e non, come credevo ingenuamente io, fare leggi che vadano in senso opposto a quelle promosse dal capo di Forza Italia?

Nei suddetti punti inoltre non compaiono i PACS, già ridotti a DICO, in quanto verranno votati da tutto il parlamento perchè, dice Prodi, su questi argomenti la libertà di coscienza è d’obbligo. Su questo punto mi vorrei soffermare un po’ di piu’ in quanto la logica di Prodi mi è particolarmente incomprensibile.

Il Presidente del Consiglio sostiene che dare diritti a chi non ne ha, senza toglierne a nessuno,  è una questione che  esula dai diktat di partito? Eppure stavolta non c’è il feticcio dell’embrione che potrebbe essere già  un essere umano di cui si lederebbe il diritto alla vita. Alla famiglia tradizionale non verrebbe torto giuridicamente un capello, ci si limiterebbe ad affiancarle un’altra forma di legame riconosciuto. E’ questione di coscienza dare diritti agli omosessuali? E perchè mai la coscienza di Prodi non pone veti quando si vogliono dare diritti ai metalmeccanici o alle donne in maternità? Si rischia che le coppie etero preferiscano i DICO al matrimonio? Meglio, vorrà dire che si sarà trovata una forma di legame riconosciuto dallo Stato che incontra maggiormente le preferenze dei cittadini.  Le leggi si fanno per questo o no?
Sta bene, rispettiamo la coscienza di Prodi e il fatto che il Papa strepiti per l’attacco ad un ente metafisico chiamato FAMIGLIA (sì, ente metafisico, perchè le famiglie quelle vere fatte di donne e uomini sposati, non hanno nulla da perdere dall’istituzione dei DICO).

Prodi è un uomo che riconosce le scelte di coscienza, ci mancherebbe.

Allora perchè il finanziamento di una missione militare di PACE dove stà per scattare una cosa chiamata offensiva di primavera  da ambo i lati è invece argomento degno di epurazioni? Il fatto che il brillante Ministro degli Esteri non abbia menzionato l’eventuale escalation del conflitto non puo’ aver sollevato qualche legittimo dubbio di coscienza a Turigliatto? La coscienza di Turigliatto davanti ai bombardamenti è cosa deprecabile mentre quella di Mastella davanti  a Ruini è cosa buona e giusta?

La libertà di coscienza di Prodi è in realtà un lavarsi la coscienza se i DICO verranno bocciati al senato avendo contro Lega, AN,Forza Italia, UDC, Udeur, qualcuno nella Margherita e qualche cariatide con la gobba che ci trascineremo fino alla tomba (la nostra perchè lui è immortale).

Io preferisco la libertà di coscienza di Turigliatto.
 
Se ci aggiungiamo che l’elettorato di sinistra è sostanzialmente, quando non entusiaticamente, daccordo nel riconoscere diritti alle coppie di fatto e in linea di principio, quando non radicalmente, contrario a queste ambigue missioni di pace, il cerchio si chiude.

Turigliatto ha detto no a un governo dove ti si concede libertà di coscienza se sei in linea col Vaticano e ti si epura quando non sei in linea con questa amministrazione americana niente affatto guerrafondaia e fascistoide. Turigliatto ha detto no ad un governo che non mette tra le proprie priorità la lotta al precariato che stà bloccando la crescita professionale, economica ed umana (sì umana, visto che col co.co.pro non si mette su famiglia né tradizionale né atipica) di un’intera generazione di italiani. Turigliatto ha detto no ad un governo che non ascolta i movimenti che lo hanno votato (TAV, Vicenza) e che anzi guarda con sospetto alle manifestazioni di piazza. Turigliatto ha detto no ad un governo salito al potere in virtù dell’antiberlusconismo e che poi  nulla fa contro  le leggi piu’ infami promulagate  da Berlusconi (non compare neppure l’abrogazione della Bossi-Fini).  Turigliatto ha detto  no  ad un governo dove il vice primo ministro  Dalema parla apertamente  di come  “una sinistra così (cioè radicale, cioè il PRC e Turigliatto) non serva al paese”. Lo stesso Dalema che pontifica mattina e sera su come sarà bello costruire un partito democratico che escluderà le ali estreme, ottenendo il privilegio di poter interloquire con personalità politiche del calibro di Casini e Buttiglione.

Turigliatto è un comunista e come tale si è opposto ad un governo che di sinistra, dopo un anno, già non ha piu’ nulla.  Io non sono comunista ma anarchico, e ritenevo opportuna la scelta dell’astensione. Soffro pero’ di una strana forma di allergia che mi provoca pustole dolorosissime quando vedo gente come Calderoli svolgere funzioni di Ministro della Repubblica, e così ho votato per Rifondazione Comunista. Ora, visto che grazie a questa legge elettorale di merda non mi è stato permesso di esprimere una preferenza per il candidato posso legittimamente immaginare di aver dato il mio voto al senato a Turigliatto.

Beh, che dire? Sono orgoglioso che il mio ultimo (perchè non ci ricasco) voto sia stato rappresentato degnamente da questo senatore con la schiena dritta.