Renzi balla da solo.

Spolverando un altro brutto latinismo, Renzi risponde con l’Italicum alla domanda di democrazia proveniente dagli elettori e alla ben più pressante sentenza della Corte Costituzionale contro il defunto Porcellum. Per conquistare questo obbiettivo si è visto costretto a invitare il diavolo in chiesa (o il Signore all’inferno, fate voi), col risultato di far infuriare la base e farsi accusare di intelligenza col nemico dagli alleati e dai cinque stelle.

Le analogie con Thohir, l’autolesionista che viene dall’oriente, non mancano. Il merito stesso dell’Italicum ha poi portato alle dimissioni di Cuperlo, di cui molti si faranno una ragione, col rischio però di spaccare un partito che sembra già un vaso rotto rincollato malamente ogni paio d’anni con un giro di primarie. Ormai la colla tiene sempre meno e la struttura del partito sembra sempre più sbilenca. Appena eletto alla segreteria, Renzi contrasta l’istinto di morte del PD scatenando un conflitto interno, quasi che la sua immagine se ne nutra, pur di raggiungere un compromesso sulla legge elettorale. I Renziani dichiarano che l’accordo con Berlusconi è storico e che comprende anche le riforme istituzionali, senza spiegare perché Berlusconi dovrebbe comportarsi in modo diverso da come fece con D’Alema, Veltroni e Letta, mollandoli cioè non appena la condizione politica gli tornava favorevole. Nelle nobili motivazioni sono identici alla classe dirigente che hanno appena rottamato, in questo senso la circostanza è storica soltanto nell’ottica di un distorto ‘eterno ritorno’. Tutto nell’interesse degli italiani e nel rispetto della conformità costituzionale, ci si augura.

Stranamente però l’Italicum non piace ai costituzionalisti e Sartori lo ha già definito Pastrocchium, dando l’impressione che i limiti imposti al Porcellum non siano stati superati, ma goffamente aggirati nel tentativo di conservarne lo spirito. Nell’Italicum ci sono ancora le liste bloccate, soltanto più brevi, saranno inserite nella scheda vicino al simbolo e distribuite in più collegi elettorali. Nella sostanza ancora parlamentari nominati, seppur con qualche maggior vincolo, soprattutto se saranno possibili candidature multiple sui vari collegi. Il premio di maggioranza è ancora abnorme, si ottiene in caso di superamento del 35% ma in caso contrario viene assegnato comunque nel doppio turno dove il premio, legittimato dalla seconda votazione, può in linea teorica sfiorare un incredibile 40%. Esagerano i cinque stelle a scomodare il paragone con la legge Acerbo, voluta da Mussolini e introdotta nel 1923, ma a ben vedere almeno in quella c’erano le preferenze. Infine, per la gioia di SEL e NCD, i partiti sotto l’8% sono costretti a entrare in coalizione con i grandi, quelli sotto il 5% non possono entrare in Parlamento.

La prima mossa politica davvero significativa di Matteo Renzi dopo il trionfo alle primarie mette dunque in crisi gli equilibri nel partito, nella futura coalizione e nel Governo, legittimando ancora una volta Berlusconi come avversario e interlocutore. Il decisionismo, la tendenza ad esternare in continuazione, la ricerca del conflitto e gli atteggiamenti sprezzanti fanno parte dell’uomo Renzi almeno quanto le indubbie doti di comunicatore. Renzi è il tipo che scommette su se stesso e balla da solo, nella strada che ha intrapreso non c’è via di mezzo: o sarà l’asso piglia tutto della politica italiana per il prossimo decennio o sarà l’esecutore testamentario del PD e del centrosinistra, l’ennesimo leader stritolato dall’abbraccio del caimano e dalle faide di segreteria.


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Economia 2014: spread, PIL e disoccupazione.

Se il Presidente del Consiglio ha abbondantemente sbandierato nelle ultime settimane il calo dello spread intorno a quota 200, dopo gli interventi in materia di Monti e soprattutto di Draghi, appare ormai chiaro che la riduzione del differenziale  non ha effetti immediati sull’economia tali da frenare l’emorragia di posti di lavoro e il processo di deindustrializzazione in corso. La vera partita si gioca sul campo dell’attesa ripresa, le cui previsioni apparentemente positive sono state ampiamente capitalizzate a dicembre dalla propaganda governativa: +1,1% del PIL nel 2014.

Prima della recessione in corso nel quinquennio 2000-2005 i tassi di crescita erano stati mediamente intorno all’1% e la situazione italiana veniva già descritta come “stagnazione”, “declino” o crescita zero. Dopo la crisi, in seguito ad un drastico calo delle aspettative, quello stesso dato viene stranamente descritto come un trionfo perché, testuale, ‘l’Italia abbandona finalmente il segno meno ’. Letta e Saccomanni dimenticano che il segno ‘meno’ era già stato abbandonato nel 2011 (+0,4%) senza che questo lieve rialzo avesse messo fine alla crisi e al trend di distruzione del tessuto produttivo. Gli stessi Saccomanni e letta hanno ammesso che si tratterà di una ‘jobless recovery’, ripresa senza posti di lavoro, per i quali bisognerà attendere il 2015. Ammesso e non concesso che l’economia del paese e le forze sociali in fermento possano attendere un intero anno di ulteriore aumento della disoccupazione, bisogna vedere quale sia la reale attendibilità delle stime ‘positive’ sul PIL 2014: se ci focalizziamo sui recenti precedenti storici la risposta è nessuna. Come fa notare tra gli altri Brancaccio, le previsioni del Governo per il 2011 erano per un +1,4 mentre il risultato effettivo fu il già citato +0,4, nel 2012 venne stimato un +1,3% a fronte di un -2,4% reale e, infine, il 2013 appena concluso con una contrazione del PIL dell’1,8% vedeva appena un anno fa ottimistiche previsioni per un +0,4%. Andando più  indietro con gli anni e coi governi le previsioni erano state sbagliate al ribasso nel 2009, -5,8% contro un -2% delle attese, e perfino al rialzo quando il rimbalzo del 2010 era stato sottostimato di quasi un punto.

Basarsi su queste previsioni non soltanto per impostare una politica di bilancio tuttora rigidissima (basta poco a sforare il 3% di deficit se il PIL cresce la metà delle attese) ma anche per riguadagnare credibilità davanti a un paese allo stremo, è dunque un’operazione del tutto inconsistente alla luce di quanto visto negli ultimi anni.   Ben altro ci raccontano i dati reali diffusi, quelli raccolti ex-post dall’ISTAT, che riguardano la disoccupazione in crescita al 12,7% e la disoccupazione giovanile al record 41,6%, cui va sempre aggiunto l’enorme calderone , mai stimato con esattezza, che comprende lavoratori in CIG, mobilità, scoraggiati e sottoccupati, molti dei quali sono poveri pur avendo un lavoro. Nell’attuale politica rigorista e in quel +1,1% messianicamente atteso in Italia per il 2014, ammesso che si realizzi mai, non c’è alcuna risposta per tutti loro.

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